Storia della macchina da scrivere: nascita e consacrazione di un mito senza tempo
La macchina da scrivere non è un semplice strumento come tanti: ha rappresentato un’epoca e il suo fascino sembra essere senza tempo. Non è azzardato dire che le sue radici sono italiane e che, grazie all’ingegno e alle capacità di Camillo Olivetti, nel ‘900 l’Italia tornò ad essere avanguardia nel campo della scrittura meccanica. Fino alla digitalizzazione della scrittura, che portò nuovamente il centro di tutto oltreoceano.
Il 26 aprile del 2011 il Corriere della Sera pubblicava l’epitaffio di uno strumento che ha rivoluzionato la storia della scrittura, la macchina da scrivere. “Nei giorni scorsi ha chiuso i battenti in India la Godrej & Boyce, l’ultima azienda al mondo che produceva macchine per scrivere”, così riportava il quotidiano di Via Rizzoli a Milano. Quella notizia, però, altro non era che una bufala e si era diffusa paese per paese proprio per via di quel “copia e incolla” di cui oggi tanti giornalisti cadono vittima e che -ai tempi in cui le redazioni erano fatte di scrivanie con sopra (per l’appunto) le macchine da scrivere- non era invece nemmeno lontanamente immaginabile. Infatti, ancora oggi “resistono” alcune realtà che producono macchine da scrivere in Cina e ci sono diversi contesti in cui questo strumento continua ad essere un’alternativa valida al computer. Basti pensare alla scena da film americano coi servizi segreti intenti a battere su macchina (le macchine da scrivere sono infatti a prova di hacker). Quindi, come riporta giustamente il Museo della macchina da scrivere, con la rivoluzione informatica e l’utilizzo di massa del computer è sì, finita l’epoca per eccezione della macchina da scrivere, ma non la sua lunghissima storia che affonda le radici addirittura più di cinquecento anni fa.
Gioielli per appassionati della scrittura
Gli antenati della macchina da scrivere sono italiani
I primi tentativi per costruire uno strumento di scrittura meccanica risalgono infatti alla seconda metà del Cinquecento. A quell’epoca, Venezia era sicuramente il più importante centro editoriale, la casa di tantissimi librai alle prese con le strette inquisitorie, che censuravano e disciplinavano la cultura letteraria italiana secondo i dettami ecclesiastici. In quella cornice, proprio trai canali della Repubblica di Venezia, l’editore e tipografo italiano Francesco Rampazetto si inventò il primo congegno meccanico che si avvaleva di caratteri in rilievo per scrivere. Questa prima invenzione era per fini puramente medici e umanitari: il Rampazetto pensava a un utilizzo soprattutto in funzione della comunicazione tra persone cieche.
Nei due secoli successivi, fino ad arrivare a una parziale svolta che avviene nella seconda metà del XIX secolo, si calcolano cinquantadue personalità che -in diversi paesi, con modalità e finalità differenti- costruirono ingegnosamente un qualche tipo di macchina da scrivere. Tra i nomi più importanti c’è ancora un italiano, Giuseppe Ravizza che, seppur laureato in Legge, dedicò tutta la sua vita non ai temi giuridici, ma allo studio del problema della scrittura a macchina. Nel 1837 iniziò così a costruire il suo cembalo scrivano. Utilizzando i tasti del pianoforte (da cui appunto prende il nome il congegno), l’inventore di Novara riuscì nell’impresa di cui lui stesso diede una strepitosa definizione:
“Chiamare la meccanica in aiuto all’estesa e importante operazione dello scrivere, sostituire nell’uso generale della mano che traccia le lettere, l’azione d’un meccanismo, in cui le lettere sono già formate perfette e uniformi, invece che operare con una sola mano, operare con ciascuna delle dieci dita…»
La straordinaria opera di ingegneria di Ravizza non gli bastò comunque per vedere il trionfo del suo cembalo scrivano; quando morì nel 1885 a Livorno, la macchina da scrivere ancora non aveva conquistato la società italiana. Dall’altra parte dell’oceano Atlantico, però, le cose andavano in maniera nettamente diversa.
Negli Usa nasce la produzione industriale del mitico modello Qwerty
Fu proprio il cembalo scrivano inventato da Ravizza a dare l’impulso a diversi studiosi e inventori americani. In questo senso, un contributo fondamentale per la messa a punto del congegno fu quello di Christopher Latham, che trovò una migliore disposizione dei tasti distanziandoli maggiormente tra loro. In questo modo, l’azionamento delle leve non provocava l’attrito tra le lettere utilizzate della tastiera. Le prime cinque lettere in alto a sinistra formavano la parola “qwerty” e proprio così vennero chiamati i primi modelli che furono prodotti a livello industriale negli Stati Uniti dall’industria bellica Remington. Quella trovata fu così geniale che il modello Qwerty, il primo esempio di tastiera, è usato ancora oggi dalla Apple e dalle più dinamiche e innovative aziende delle tecnologie informatiche (anche se le leve meccaniche sono state sostituite ovviamente da metodi più avanzati).
Se la Qwerty della Remington può essere considerata la prima macchina da scrivere che conquistò la società di massa americana, fu però un’altra azienda statunitense a imporsi come leader mondiale nella produzione industriale. Nei primi del ‘900, infatti, la Underwood (che già produceva nastri inchiostrati) comprò il brevetto dell’inventore tedesco Franz Xavier Wagner, il quale aveva migliorato le funzionalità introducendo la scrittura frontale. Si superava così un grande difetto dei primi modelli in cui il carattere batteva sotto il rullo, non permettendo di conseguenza al dattilografo di scorgere eventuali errori prima della fine della redazione. La Standard No. 5 della Underwood fu quindi la prima macchina con la scrittura frontale e diventò in pochi anni uno strumento diffuso nelle redazioni di tutto il mondo.
L’avanguardia torna in Italia con Olivetti
È in questo contesto di dinamismo e vivacità che si inserisce Camillo Olivetti. Il suo grande ingegno gli permise infatti di “tradurre” quelle invenzioni dall’America all’Italia, riportando qui l’avanguardia tecnologica, prima nel campo della produzione di strumenti di misura e poi anche delle macchine da scrittura. La presentazione della prima Olivetti (M1) all’Esposizione universale di Torino nel 1911 rappresenta sicuramente un fatto storico importantissimo. A livello estetico, il modello era molto simile a quello prodotto da Underwood, ma una serie di miglioramenti e perfezionamenti consentivano una funzionalità migliore e innovativa della macchina. Dal 1911 al 1920, Olivetti produsse all’incirca seimila macchine M1 in Italia. Nel 1920, il modello Olivetti entrò poi anche nei mercati internazionali. Il passaggio fondamentale fu la presentazione alla Fiera di Bruxelles del modello M20 in cui i meccanismi che compongono il cinematico della scrittura e il cestello delle leve vennero migliorati notevolmente, dando vita a una macchina nettamente migliore rispetto alla M1 e oramai pronta ad imporsi a livello globale.
Il modello Olivetti rimase all’avanguardia a livello mondiale fino al secondo Dopoguerra, con un’evoluzione straordinaria sia in termini di innovazione tecnologica che di design. La famosissima Valentine, per esempio, nel 1968 sorprese con la sua eleganza, presentando per la prima volta nella storia una macchina da scrivere che era disegnata per funzionare anche come sua stessa custodia. Per non parlare delle mitologiche Lettera 22 e Lettera 32.
Il vero tracollo iniziò con la digitalizzazione della scrittura, che ha riportato fuori dall’Italia il centro dell’innovazione tecnologica in questo campo, e reso la macchina da scrivere lo strumento di nicchia che è oggi.